L'Auto Italiane In Usa

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  1. edo24
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    Vi propongo un bellissimo articolo tratto da Omniauto. Consiglio a tutti di leggerlo...



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    CITAZIONE
    Nel mondo, e soprattutto nel ricco mercato americano, i prodotti "nostrani" sono da sempre sinonimo di "livello superiore". Sono superiori le opere dei nostri artisti, sono superiori le creazioni degli stilisti, degli artigiani orafi, dei mobilieri. E sono superiori "le Ferrari".

    Sì, perchè quando si parla di auto, per i nordamericani la superiorità del made in Italy si ferma al Cavallino. E il concetto diventa surreale quando, negli ambienti degli appassionati d'oltreoceano, si sentono languori circa le Alfa Romeo, le Fiat e le Lancia che loro da anni non posso guidare. Sorge, quindi, spontaneo l'interrogativo sul perchè le auto italiane (per intenderci, quelle per comuni mortali), seppur riconosciute, non sono mai riuscite a ritagliarsi il loro angolino nel Nuovo Continente?

    L'INCIPIT
    Per dare una risposta a tutto ciò, ripercorriamo brevemente la storia delle auto italiane negli Stati Uniti. Gli albori di tale relazione sono da collocarsi oltre un secolo fa, quando la Fiat, giovane società per la produzione di automobili, aprì una propria filiale in USA: era il 1908 e le auto erano prodotti lungi dall'essere considerati di "massa". Da qui l'attenzione della Casa torinese al mercato più florido del mondo, come approdo per le sue realizzazioni. L'idea di aprire una filiale in Nordamerica pagò al punto che soli due anni dopo, nello stato di New York fu aperto un vero e proprio stabilimento di assemblaggio. I veicoli Fiat made in USA riuscirono così a guadagnarsi anche uno spazio "istituzionale" al punto che furono adottati anche come equipaggiamento per le forze armate americane. Questa parentesi, poco significativa industrialmente e degna di essere ricordata se non altro per la sua carica “folkloristica”, si chiuse alcuni anni dopo con la cessione dello stabilimento alla Duesenberg.
    Poi, dal secondo dopoguerra la Fiat ha cercato di prendere, in vari modi, una sua fetta nella torta del Nordamerica, seguita a ruota da Lancia, da Alfa Romeo (intanto convertitesi ad una produzione su scala industriale), e alcuni anni dopo da Maserati. Ma l'automobilismo di massa è un'altra cosa e se Alfa Romeo, Lancia e Maserati, divennero nomi famosi per i loro successi agonistici e per le vetture “fuoriserie”, come accadde a Ferrari, i loro prodotti industriali non riuscirono a sostenere il peso di tale immagine e finirono nel limbo delle auto “esotiche” - con alcune eccezioni che vedremo - un po' come le piccole Fiat 500 e Autobianchi Bianchina, che la Casa torinese azzardò a proporre alla clientela americana.
    Il perchè di questa strana dicotomia tra immagine e riscontro sul mercato è riconducibile a più aspetti: vi è uno di tipo quasi “antropologico”, uno industriale ed un terzo di tipo logistico.

    IL CONFRONTO CULTURALE
    Il primo aspetto riguarda essenzialmente le caratteristiche dell'automobilista “tipo” americano e la tipologia di utilizzo che egli fa dell'automobile. Orientativamente, il classico guidatore d'Oltreoceano è poco attento alla meccanica e al piacere di guida – in senso “latino” - e, in ogni caso, pone questi aspetti in secondo luogo rispetto al comfort e all'affidabilità generale della propria auto. È un orientamento culturale: l'automobilismo americano si è sviluppato circa quarant'anni prima di quello Europeo (e circa cinquanta prima di quello italiano), prendendo una direzione maggiormente pragmatica rispetto a quanto accaduto sull'altra sponda dell'Oceano. Di conseguenza, in senso lato, gli americani vedono l'auto sotto un aspetto molto meno edonistico e ludico, rispetto a quanto non si faccia nel Vecchio Continente.
    Emblematico il caso del “porta lattine”, negli anni '80 e '90 dotazione standard nelle auto americane – utilizzate come “seconda casa” per molti automobilisti - e pressochè sconosciuto da noi (ad eccezione dello strano e “incompreso” porta bottiglie posto davanti al sedile del passeggero anteriore nelle primissime Fiat Ritmo...). Inoltre, la maturità dell'automobilismo di massa americano, ha portato anche all'impostazione di un Codice della Strada ben definito e particolarmente restrittivo, che pare fatto ad hoc per mortificare la “caratura” tecnica e dinamica degli autoveicoli, tradizionale punto di forza delle auto italiane.
    Vi è infine un'ulteriore discriminante legata alla distribuzione della popolazione sul territorio, che vede enormi megalopoli sulle coste, alternate ad aree interne a scarsissima densità abitativa, con climi spesso sfavorevoli, che ampliano notevolmente la scala delle distanze. Se nelle grandi aree urbane il “life style” è assimilabile a quello europeo, altrettanto non si può dire delle zone interne dove i ritmi e gli stili di vita sono radicati ad un modello classico che è del tutto scevro da influssi europei. È ovvio che in un quadro del genere le nostre automobili, essenzialmente quelle italiane, hanno trovato un ambiente ostile: la filosofia costruttiva mal si adattava all'utilizzo tipo dell'utente americano. Pensate a cosa possa significare fare un viaggio nel centro degli USA a bordo di una vecchia 500, per chi è abituato ad enormi berline con cambio automatico e condizionatore...
    Analizzando il fattore industriale, poi, emergono lampanti le differenze culturali tra Italia e Nordamerica. È evidente, e non si tratta di ragionamenti superficiali, che solo nell'ultimo decennio la qualità delle auto nazionali può dirsi allineata agli standard globali ed è altrettanto evidente come, quando negli anni '50 del Novecento, in Italia la “garanzia” era ancora un concetto astratto, in USA esistevano già organismi a tutela dei consumatori che vigilavano sulle caratteristiche dei prodotti commercializzati sul mercato interno. Questo meccanismo è stato talmente radicale da penalizzare, per almeno un paio di decenni, anche la stessa industria statunitense – a favore delle importazioni dal Giappone e dalla Corea – e sicuramente non ha giovato all'immagine delle nostre auto, in difficoltà perchè prodotte secondo capitolati ben diversi rispetto a quanto richiesto dal mercato Americano.
    Infine la questione logistica, relativa alla distribuzione e soprattutto all'assistenza. Mentre in Italia, ancora oggi è ben presente il principio del concessionario “monomandatario”, che si occupa di vendita e assistenza di prodotti di una sola Casa (o del medesimo gruppo automobilistico), in Nordamerica erano diffusi venditori “plurimarche”, che si occupavano di commercializzare e di fornire assistenza per prodotti di più gruppi automobilistici. Il che, legato a quanto menzionato in alto, relativamente alla qualità delle auto nazionali rispetto alla media del mercato americano, ha mostrato negli anni tutte le sue debolezze, con poche officine e punti di assistenza che nei migliori dei casi non riuscivano ad operare al meglio sulla meccanica – relativamente complessa – delle auto italiane e che, il più delle volte “latitavano” letteralmente sui problemi dei clienti. Negli ultimi anni della presenza delle case italiane in USA, ci si è appoggiati alla rete di vendita di grandi costruttori nazionali (vengono in mente gli accordi degli anni '80 e '90 stretti da Alfa Romeo e Maserati con Chrysler, che condussero alla nascita della fallimentare “A.R.D.O.N.A. - Alfa Romeo Dealers of North America”), ma con risultati analogamente disastrosi.

    GLI INSEGNAMENTI DEL RECENTE PASSATO
    Ovvio che con premesse del genere, il tuffo in Nordamerica potrà sembrare sempre e comunque un bagno di sangue per la nostra industria, ma non è propriamente così. In primis, nell'automobilismo europeo ci sono esempi di ottima integrazione tra prodotti di massa europei e mercato americano: le case tedesche sono riuscite, con le loro caratteristiche positive, a ritagliarsi la loro fetta di mercato americano, impegnandosi nel progettare automobili “duttili” che ben si adattano ad entrambe le sponde dell'Oceano, tendenzialmente affidabili e focalizzando con precisione i propri target. Questo vuol dire che il mercato esiste (oggi, ma anche in passato) per prodotti filosoficamente diversi rispetto ai canoni statunitensi.
    In secondo luogo ci sono tre esempi di auto italiane che sono riuscite a spopolare in suolo americano: le Fiat 124 Spider (168.000 esemplari venduti in Nordamerica su 200.000 prodotti in totale) e Fiat X1/9 e l'Alfa Romeo Spider (la “duetto”). Tre esempi di vetture di nicchia, è vero, che dimostrano però quanto sia importante che, in un mercato ampio e complesso, la personalità di un'automobile sia ben definita.
    È ovvio che chi ha posseduto auto del genere, era un appassionato e per questo meglio disposto di altri a sottostare ai piccoli fastidi e alle rinunce che l'uso di questi modelli comportava (e vengono in mente le plance che si “cuocevano” al sole della California, fino a riempirsi di crepe). Rimane tuttavia da considerare l'assunto che se un prodotto nasce bene, in un mercato tendenzialmente “aperto” come quello del Nordamerica, ottiene un ben determinato riscontro, indipendentemente da alcune difettosità intrinseche.
    Per contro, i flop commerciali di altri modelli nazionali sono stati ben supportati da episodi non edificanti e spesso tragicomici, come le note tendenze “autocombustive” delle Maserati Biturbo, che obbligarono il Tridente ad una fuga strategica alla quale si è potuto porre rimedio solo nell'ultimo decennio grazie all'immagine e all'interesse di Ferrari, dopo una profonda ristrutturazione.
    Al riguardo, ricordiamo un altro episodio eclatante: la “simpatica” tendenza al black-out elettrico delle Alfa 164 per l'America. Questo episodio fa riflettere quanto l'industria dell'auto debba essere attenta nel considerare particolari socio-antropologici. I fatti sono presto detti: la 164 fu impostata in Alfa Romeo nei primi anni '80 e i progettisti non si curarono di un aspetto tanto banale quanto importante: l'auto, che sarebbe stata regolarmente esportata in USA con un'immagine da grande stradista (quale, onestamente, era), necessitava di un porta lattine (perchè gli americani, al contrario di noi, mangiano e bevono regolarmente in macchina), del quale, ben lungi dall'essere considerato dai progettisti e dei designer europei, non ne era minimamente provvista.
    Ma c'è di più: se si beve e si mangia in macchina, i “generi di conforto” si appoggiano dove sta più comodo, ovvero sul tunnel centrale. E la 164 offriva un bel tunnel centrale - tra i due sedili - bello, largo e piatto e con una caratteristica: celava vari comandi e alcune centraline dell'impianto elettrico. Il gioco era fatto: bastava avere un Alfista-Yankee, incallito bevitore di “Diet Cola” alla guida. Era sufficiente che questi, non curante che la sua “sedan” italiana era priva di porta bicchieri, appoggiasse una bella lattina fredda sul posto più comodo, ovvero sul tunnel incriminato, che la condensa faceva il suo corso e lasciando che si insinuasse tra comandi e connessioni elettriche quella goccia d'acqua necessaria a mettere fuori uso la grande stradista di Arese. E in USA di 164 ferme per episodi del genere ce ne sono state talmente tante da indurre l'Alfa Romeo a correre ai ripari, mediante richiami e modifiche in fase di produzione.
    Insomma, uno sfacelo totale per non aver considerato un banale aspetto culturale...

    LA SITUAZIONE ATTUALE
    Oggi i tempi pare siano cambiati: Alfa Romeo ha lasciato il Nordamerica nel 1995, Fiat è assente dagli USA da oltre vent'anni e Lancia da quasi trenta. In questo periodo, il mercato d'Oltreoceano è cambiato molto, è molto più vicino al nostro e le lobby sono solo un ricordo, ma è cambiato anche il nostro modo di fare automobili, con caratteristiche di sempre maggiore fruibilità oggettiva, oltre che di affidabilità generale.
    In un decennio abbiamo fatto passi da gigante (le difficoltà aguzzano l'ingegno...) e il nuovo asset di Fiat Group, con una posizione di controllo su Chrysler, lascia presagire che ci si possa affacciare nuovamente al mercato Nordamericano e che lo si possa fare con molta più serenità.
    Concentrarsi sulle grandi metropoli è sicuramente un bel biglietto da visita: e lì che si concentra la maggior parte del reddito e proporre la 500 come alternativa chic a MINI e smart – che pare abbiano un loro riscontro nelle aree urbane americane – è una mossa vincente. Lo è altrettanto svecchiare il design di Chrysler cercando di far conoscere l'insolita – per gli USA - Lancia Delta con un'operazione di rebadge: attività molto meno “blasfema” di quanto possa apparire, così come lo è anche cavalcare l'onda della 8C Competizione, venduta in America attraverso la rete Ferrari-Maserati, e riproporre negli stessi contesti urbani una gamma di compatte Alfa Romeo, con MiTo e Giulietta a fare da apripista.

    Rimane un solo problema: con i prodotti attuali, è vero che sbagliare è difficile, ma bisogna trovare la strategia giusta. Si deve essere decisi ed agguerriti e non ci si può più permettere di perdere altro tempo. Se non è questa la volta buona...

    Omniauto.it


    Fiat X1/9

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    Ferrari 458 Italia

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    Lancia Delta - Chrysler Delta

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